Milano, domenica 4 giugno 1989. In un’epoca in cui le rivalità tra ultras spesso si trasformano in pura delinquenza, senza scrupoli e soprattutto senza motivo.
Antonio, appena 19enne, era a Milano quel giorno per assistere alla partita. Era quasi mezzogiorno e mancavano molte ore al fischio d’inizio quando un giovane dall’aspetto tranquillo, più o meno della stessa età, si avvicinò con la scusa di chiedergli una sigaretta.
Altre due domande, la classica “che ore sono? “, l’accento romano che si traspare chiaramente.
Il cenno arriva, è “nemico”: scatta l’agguato. C’è poca gente e ancor meno poliziotti, permettendo al gruppo di aggredire senza intrusi in pochi secondi.
La fuga dura poco, Antonio cade a terra, in dieci gli si avventano addosso. Antonio entra in coma e muore per un infarto causato da una lieve malformazione congenita ad una delle coronarie.
Il procuratore chiede otto anni di condanna: ne riceverà sette, con un anticipo sui danni di 50 milioni. La corte concede il beneficio della remissione in libertà.
Bonalda trascorre poche ore in carcere, per poi tornare a casa tranquillamente. Anche per loro il procuratore aveva chiesto otto anni, ma nessun testimone li aveva notati nel gruppo degli aggressori.
“E questa è la giustizia? E’ uno schifo.
A me questa sentenza non sta bene. Loro dovevano pagare, anche se nessuno può riportare indietro il povero Antonio”.